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L'ODIO
(LA HAINE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 maggio 1995
 
di Mathieu Kassovitz, con Vincent Cassel, Hubert Koundé, Said Taghmaoui (Cineclub) (Francia, 1995)
 

Non a caso uno dei protagonisti di LA HAINE ripete in continuazione: "Conosci la storia di quel tale che si butta da un palazzo di cinquanta piani? Ad ogni piano, mentre cade, continua a dirsi: fin qui è andata, fin qui è andata bene, fin qui è andata bene. Questo, per dire che il problema non è la caduta, ma l'atterraggio..."

LA HAINE è la descrizione di quella caduta: alla quale tutti assistiamo, non si sa se più impotenti che indifferenti. Ambientato in una delle tante periferie parigine - e nemmeno peggiore di tante altre - descrive gli scontri fra i giovani che la abitano (quasi inutile dire che sono multirazziali, disoccupati, rassegnati) e la polizia. Responsabile di una "bavure": il solito colpo in canna scappato al solito poliziotto più o meno esperto, la solita fine squallidamente ritenuta casuale del giovanotto più o meno giovinastro. LA HAINE non è dunque un film nuovo nel tema, nell'universo, nei personaggi trattati; ma piuttosto incredibilmente inedito e comunque assolutamente riuscito nel tono usato. Perché non si limita ad assistere e descrivere, ma tende costantemente, determinatamente a partecipare: non un film "per", ma un film "contro".

L'aspetto che balza evidente agli occhi dello spettatore è l'estrema naturalezza degli interpreti, avvicinati con un intimità, una complicità tale da farne non degli esempi di comportamento, ma delle autentiche testimonianze di personalità. Personalità diverse, di tre giovani che seguiremo per 24 ore, e che magnificamente riassumono i tre toni che reggono il film: la calma, la disperata lucidità di Hubert, il boxeur africano che cerca di pacificare, perfettamente conscio che la sola soluzione sarebbe quella di andarsene. La rabbia compressa, che attende solo di mutare in violenza dell'ebreo Vinz; alla quale si contrappone l'umorismo del magrebino, di Said che ha deciso una volta per tutte che l'unica soluzione sia quella di tirare a campare.

Ma Kassovitz non si limita a seguire questi comportamenti, a fare del realismo di osservazione: lievita, organizza, costruisce il proprio materiale veridico grazie ad uno sguardo cinematografico di sorprendente efficacia. Basato innanzitutto sulla filastrocca inestinguibile dei dialoghi - vera fonte filologica per chi vorrà occuparsi in futuro dell'aria che tirava da queste parti in questi tempi, anche se di non facile comprensione per chi non possiede perfettamente la lingua -; sull'architettura dei suoni urbani, sulla splendida fotografia di un bianco e nero che sa trovare il giusto, difficilissimo equilibrio tra la resa naturalistica e la possibilità di evadere dallo schematismo che sempre minaccia questo genere di ricerca.

Attraverso l'astrazione, il fantastico, l'humour. La capacità, il coraggio (che è quello dell'autentico artista) di voltare le spalle per un istante all'urgenza del dire, per osservare ciò che accade accanto. E che è poi un modo di evitare l'aneddoto, di guardare le cose con un minimo di distanza, di relativizzare, di fare storia invece che reportage.

LA HAINE si costruisce allora sulla traccia di quello sguardo duro ed intransigente, maturo e saggio, rabbioso ma anche disincantato: appartiene ad uno dei personaggi, Hubert, ma è soprattutto quello - esaltante - di un cineasta che nasce.


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